Tutti abbiamo ormai familiarizzato con l’espressione greenwashing e i consumatori hanno iniziato a vigilare sull’operato delle aziende riguardo le loro politiche ambientali, pretendendo trasparenza: le dichiarazioni di sostenibilità devono essere veritiere e ad esse devono corrispondere reali azioni virtuose in chiave green.
LEGGI ANCHE: Chi difende il consumatore dal greenwashing
D’ora in avanti, però, sarà necessario confrontarsi anche con un altro fenomeno recente, quello del greenhushing.
COS'È IL "SILENZIO CLIMATICO"
Il termine greenhushing indica la scelta da parte delle aziende di non comunicare le informazioni riguardo il proprio impegno per il pianeta. Siamo agli antipodi del greenwashing, dunque.
Secondo il South Pole 2022 net zero report, che ha preso in esame 1200 aziende in 12 Paesi, il 23% di quelle che si impegnano per diventare più sostenibili sceglie di non rendere noti i propri progressi. Si tratta di quasi un quarto dei casi.
Dallo stesso studio emerge anche che circa il 75% delle organizzazioni esaminate (in particolare nei settori finanziario, informatico ed edile) sta destinando alla riduzione del proprio impatto ambientale quote di budget sempre più consistenti. Come mai, quindi, decidono di non parlarne?
La teoria più accreditata rintraccia la ragione di questa nuova strategia nel timore delle aziende di essere accusate di greenwashing: per evitare questo rischio, dannosissimo per la propria reputazione, preferiscono non comunicare affatto. Apparentemente, niente di grave. E invece no.
Up2You Insight, startup italiana che aiuta le aziende a diventare più sostenibili supportandole nel calcolo della loro impronta carbonica e successivamente nella sua compensazione, ha analizzato le ragioni per cui la mancata comunicazione è in realtà molto dannosa.
Il silenzio, spiegano in una loro recente ricerca, rende complesso monitorare l’evoluzione delle pratiche di sostenibilità delle aziende e impedisce il confronto sia con i consumatori sia tra imprese: i clienti non sanno esattamente come agisce un’azienda di riferimento, mentre le altre organizzazioni non possono prendere esempio, perdendo così la possibilità di innescare un meccanismo virtuoso di imitazione.
La scarsa chiarezza implica un ultimo rischio, non meno serio: non essere scelti proprio dai consumatori che, sempre più spesso, pretendono che i prodotti siano sostenibili e considerano questo aspetto un driver di scelta dei loro acquisti, oltre ad aspettarsi che le imprese facciano la loro parte, e quindi la differenza.
IL RUOLO DELLA UE E QUELLO DEI CONSUMATORI
Per mettere un freno alle diverse pratiche che rendono difficile comprendere davvero come si comportano le aziende, l’Unione Europea ha emesso la direttiva Corporate sustainability reporting directive (Csrd) che impone di divulgare, in maniera chiara e con uno standard uguale per tutte le aziende, i propri risultati ESG. Alle imprese, pur obbligate dalla recente direttiva comunitaria a rendicontare entro il 2026, resterà però la possibilità di scegliere quanto promuovere la pubblicazione dei propri risultati. Ai consumatori il compito di pretenderlo.