È un mercato nato dalla necessità di combinare le tendenze in campo di moda e stile, che cambiano nel giro di pochi mesi, a prezzi accessibili (o super accessibili): così il fast fashion rappresenta ormai una quota rilevante del mondo moda, soprattutto grazie all’e-commerce.
È così accessibile a tutti l’opportunità di ricevere capi d’abbigliamento di qualità bassa, venduti a prezzi stracciati, immediatamente disponibili e di tendenza.
Con il benservito alla sostenibilità ambientale: il fast fashion infatti genera inquinamento ambientale, spreco, iperproduzione, utilizzo di breve periodo.
Dominata da aziende che vendono solo online come il colosso cinese Shein (175 milioni di download in tutto il mondo solamente dal 1 gennaio al 22 agosto 2023, sforna ogni giorno fino a 6 mila tra nuovi capi e accessori che non superano il costo di 10 euro) o da gruppi come Inditex (che controlla i marchi Zara, Massimo Dutti, Oysho e altri ancora), l’industria del fast fashion ha completamente cambiato le modalità di acquisto di vestiti e accessori, sia per tempistiche sia per la vasta gamma di prodotti offerti.
Secondo la società d’analisi Statista, oggi questo mercato vale oltre 120 miliardi di dollari a livello globale. Oggi i colossi del comparto riescono a intercettare i desideri dei consumatori, spesso prima ancora che questi capiscano cosa sia di tendenza, e a offrire i capi del momento a prezzi stracciati. In poche parole un tentativo di rendere la moda più democratica e accessibile a tutti, garantendo un assortimento e un ricambio continuo.
POLITICHE POCO SOSTENIBILI
Il problema è che a causa dei bassi costi di produzione, del reperimento di materie prime di scarsa qualità e, negli ultimi anni, anche delle politiche di reso sempre più dinamiche e veloci, il settore del fast fashion ha meritato la medaglia di uno dei più inquinanti del pianeta contribuendo così ad appesantire il già negativo primato di sostenibilità del settore moda nel suo complesso.
I dati della Commissione Europea mostrano infatti come questo comparto produttivo ogni anno utilizzi circa 93 miliardi di metri cubi d’acqua. Inoltre è responsabile di circa il 10% del totale delle emissioni di CO2 a livello mondiale.
All’interno del mondo moda, però, è corretto dire come sia soprattutto il fast fashion a pesare negativamente in termini di sostenibilità. Da ultimo lo ha dimostrato il report di Greenpeace, “Moda in viaggio: il costo nascosto dei resi online”, nato dalla collaborazione con la trasmissione Report. L’obiettivo dell’analisi era investigare la filiera logistica dei resi per valutarne l’impatto ambientale. Ebbene, i 24 capi d’abbigliamento ordinati per l’analisi, in soli 58 giorni hanno percorso circa 100.000 chilometri attraversando 13 Paesi europei più la Cina. L’impatto medio del trasporto di ogni ordine e reso è risultato essere pari a 2,78 kg di CO2.
Numeri questi che il pianeta non può più permettersi.
IL SECOND HAND
Ecco perché è importante capire che un’alternativa al fast fashion può esistere. Come conferma anche la società di ricerca BVA DOXA una buona pratica è cercare di acquistare in modo più consapevole.
L’obiettivo deve essere quello di smettere di aggiungere al carrello capi “usa e getta” e puntare sulla qualità del prodotto o meglio ancora imparare a dare una seconda vita ai propri outfit. Infatti, dando a un vestito una seconda vita si riducono le sue emissioni di CO2 di circa il 79%.
E sebbene aziende leader come Shein continuino ad avere un successo senza precedenti, il futuro del settore deve, per il bene del pianeta, diventare più green.
Secondo un recente studio realizzato da Boston Consulting Group (BCG) con la piattaforma Vestiaire Collective, il valore del mercato della rivendita di moda oggi è compreso tra i 100 e i 120 miliardi di dollari in tutto il mondo e rappresenta già dal 3% al 5% del settore.
Numeri questi cresciuti esponenzialmente grazie ai consumatori della GenZ (seguiti solo dai millennial) che sembrano essere i più propensi ad acquistare (31%) e vendere (44%) articoli di seconda mano.