La survey Agos Insights (qui la sintesi dei contenuti) evidenzia come gli italiani guardino con favore al riciclo e all’economia circolare sebbene ciò che li spinga a farlo siano più questioni economiche che di “etica” verso la sostenibilità. Questa sensibilità appartiene soprattutto ai più giovani, ma sta via via interessando porzioni maggiori della società. Ne analizziamo le motivazioni.
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L’Italia vanta da tempo una buona tradizione in ottica di investimenti nell’economia da riciclo. L’attenzione delle imprese italiane verso questo tema è stata molto facilitata dal contesto in cui operano. Alla base di questo primato ci sono, infatti, una necessità e una virtù.
La necessità risiede nelle caratteristiche intrinseche del tessuto industriale italiano, costituito per lo più da imprese medio-piccole, competitive ma non particolarmente “ricche” che hanno sempre dovuto fare i conti con materie prime costose perché carenti, non prodotte dal nostro paese ma costantemente importate, spesso da molto lontano e a costi a volte importanti se non proibitivi. Da qui la necessità di saper riutilizzare, saper riciclare. Non è infatti un caso che l’Italia sia stato il primo paese in Europa ad aver sviluppato il packaging dei prodotti con materiale riciclato.
La virtù, invece, risiede nel fatto che il nostro sistema nazionale è eccellente dal punto di vista delle infrastrutture destinate al riciclo. Offre consorzi di raccolta molto efficaci per alcuni materiali di imballaggio, produce un quantitativo significativo di “materia prima secondaria”, offerta alle aziende come alternativa alla materia prima. E i risultati si vedono.
Dalla piattaforma Eurostat, ad esempio, è possibile scoprire che il tasso di circolarità medio europeo, cioè la quota di materie prime secondarie impiegate nell’Ue, è del 12,8% e che l’Italia vanta uno dei tassi maggiori: il 21,6%. Siamo, insomma, più bravi di molti altri Paesi nell’utilizzare materiali riciclati ed energie rinnovabili. In Europa siamo dietro solo a Olanda (30,9%), Belgio (23%) e Francia (22,2%).
Sempre l’Eurostat ci dice che il tasso di riciclo medio (calcolato su tutti i rifiuti) ci colloca al 67%, contro una media europea del 55%, e che sui rifiuti urbani siamo al 51,4% contro il 47,7% europeo mentre sul riciclo di imballaggi siamo al 69,6% rispetto al 64,8% europeo.
COSA MANCA
Ciò nonostante, sebbene siano eccellenti in materia di produzione di beni da riciclo, le aziende italiane non lo sono altrettanto dal punto di vista della circolarità dell’uso dei prodotti, in quella cioè che viene classicamente definita “Economia circolare”.
Se si fa un confronto con altre realtà europee, emerge come l’Italia sia infatti agli ultimi posti in termini di eco-innovazione.
Questo scenario visto dal mondo delle imprese si riflette sulle consuetudini del consumatore italiano che si presenta come sensibile ai prodotti risultanti da materiale riciclato, molto più che in altri paesi europei, mentre è meno avvezzo al tema del riutilizzo inteso come second hand. Ciò è dovuto anche al fatto che il consumatore italiano è abituato a una qualità alta, al made in Italy, al prodotto artigianale di buona fattura. Dalle rilevazioni della Scuola Sant’Anna di Pisa emerge infatti come il consumatore italiano accetti di buon occhio il “seconda mano”, ma per lo più quando è un prodotto di qualità, fuori catalogo o appartenente a una collezione dell’anno precedente, soprattutto se si tratta di abbigliamento o di elettronica.
LA COMUNICAZIONE
La situazione, però, potrebbe essere radicalmente diversa se solo si lavorasse in modo più efficace sulla comunicazione. La Scuola Sant’Anna di Pisa, per esempio, ha condotto un’indagine su un gruppo di consumatori relativa a prodotti di abbigliamento realizzati con fibra vergine o riciclata, da cui emergeva la loro disponibilità a pagare di più per prodotti con queste caratteristiche spiegate loro nel dettaglio.
È solo la comunicazione che può avvicinare il consumatore all’acquisto di prodotti da economia circolare, di certo non il prezzo che non è quasi mai inferiore rispetto a quelli “tradizionali”. E per questo, è necessario informare bene. Convincere il consumatore che un atto di acquisto genera un beneficio, significa convincerlo a farlo.
IL RUOLO DELL'EUROPA
Lo ha capito bene l’Unione Europea, tanto che è innegabile che in questi anni l’agenda sull’economia circolare la stia dettando proprio l’Europa. Se non ci fosse la UE a spingere sull’importanza della comunicazione al consumatore attraverso informazioni credibili e certificate sul ciclo di vita del prodotto, perché possa scegliere consapevolmente, i singoli stati membri farebbero fatica a condurre campagne adeguate. L’Italia, in particolar modo. È necessario invece capire che è necessario consentire ai nuovi sistemi di economia circolare di scardinare interessi finora consolidati.
Lo chiedono le nuove generazioni di consumatori. Ed è un flusso che non può essere arrestato.
Una recente indagine della Scuola Sant’Anna di Pisa rivela infatti come ci sia una differenza radicale, proprio in termini di comunicazione, tra Boomer e Generazione Z che fa la differenza nell’approccio al riciclo e all’economia circolare. Più si scende con l’età, maggiore è la propensione a ricercare informazioni sull’impatto ambientale dei prodotti (etichette, codice a barre, web): è addirittura doppia nella Generazione Z rispetto agli over 60.
Quello che manca è invece la propensione delle imprese a dare informazioni, in modo chiaro e comprensibile, sull’impatto ambientale dei loro prodotti che allontanino da loro l’effetto “greenwashing” su cui soprattutto i più giovani sono attenti osservatori, anche perché hanno un bacino di ricerca che è molto più ampio, completo ed efficace rispetto alle generazioni precedenti. La Generazione Z usa non solo le fonti ufficiali ma anche il passaparola; legge le recensioni dei prodotti fatti da altri utenti e soprattutto sui social parla molto di sostenibilità, di economia circolare e di tutela dell’ambiente. È la generazione più smaliziata: non si fa problemi a commentare in modo diretto e chiaro quando un’azienda fa una campagna social che si presenta come greenwashing.
Questi giovani rappresentano un cambiamento radicale rispetto alle generazioni precedenti, le cui fonti più credibili in materia di sostenibilità erano quelle istituzionali come le associazioni ambientaliste.
Oggi le aziende stanno capendo che la comunicazione ambientale non può essere appannaggio del marketing tradizionale: ha bisogno di essere illustrata e per questo l’immediatezza e la velocità di uno spot pubblicitario o di un’etichetta, per quanto ben fatti, non sono più sufficienti. Il web e i social media, se ben utilizzati, possono invece fare la differenza innescando un circolo virtuoso che porta a informare (e a formare) sull’economia circolare e al riciclo le generazioni degli acquirenti di domani.