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  • 3 Dicembre 2024
  • Ultimo aggiornamento 2 Dicembre 2024 10:27
  • Milano

Prodotti “sostenibili”: chi interviene se l’azienda mente

Cresce l’attenzione delle autorità garanti della concorrenza di molti Paesi nei confronti dei messaggi equivoci o spesso falsi che affibbiano etichette di sostenibilità non suffragate da dati oggettivi. La proposta di direttiva europea per arginare il fenomeno, però, delude gli esperti

Prodotti “sostenibili”: chi interviene se l’azienda mente

Stop al greenwashing nel marketing. Con questo obiettivo l’Ombudsman danese (l’equivalente della nostra AGCM, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato), ha imposto alle aziende la realizzazione di un Lca, ovvero un Life cycle assessment, prima di lasciarsi andare a dichiarazioni entusiastiche o, peggio infondate, relative alla sostenibilità di un prodotto, di un servizio o di un processo, ingannando così i consumatori.
L’indicazione è contenuta nella “Guida rapida per le aziende sul marketing ambientale” e ha lo scopo dichiarato di individuare con chiarezza un confine fra green claim ingannevoli e dichiarazioni lecite e fondate.

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COSA È UN LCA

Un Lca altro non è che una metodologia analitica e sistematica che valuta l’impronta ambientale di un prodotto o di un servizio, lungo il suo intero ciclo di vita. In sostanza sono presi in considerazione diversi aspetti, dall’impatto dell’estrazione delle materie prime necessarie a realizzarlo passando per la produzione, fino alla distribuzione, all’uso e al modo in cui viene smaltito o riciclato.

La presa di posizione danese, destinata a fare scuola, nasce infatti dalla consapevolezza che il concetto di “sostenibilità” è relativo, e necessita quindi di un approccio certificato che possa essere adottato soltanto facendo ricorso a un metodo oggettivo adottato da una terza parte indipendente.

UN FENOMENO PREOCCUPANTE

Il fenomeno delle dichiarazioni di sostenibilità non suffragate dai fatti è infatti più diffuso di quanto si possa pensare se è vero che anche la Commissione europea ci ha voluto vedere chiaro.

Nel 2021, infatti, uno studio ha preso in esame 344 inserzioni portando alla luce un quadro tutt’altro che entusiasmante: nel 59% dei casi il venditore non ha fornito a sostegno delle sue affermazioni evidenze scientifiche facilmente accessibili, mentre nel 37% dei casi, si usa un lessico vago e generico.

Un problema tutt’altro che banale visto e considerato che altri Paesi, anche extra Ue, si stanno muovendo nella direzione di una definizione chiara di cosa possa essere indicato come “sostenibile”.

LA PROPOSTA DI DIRETTIVA UE

Finora però gli stati si sono mossi in ordine sparso in attesa di un provvedimento generale. A livello europeo è stata da poco pubblicata una proposta di direttiva sulla quale, però, non mancano i dubbi.

Proprio su questo punto è intervenuto il professore Fabio Iraldo, fra i massimi esperti di economia circolare, docente all’Istituto di Management, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, istituzione accademica che garantisce il supporto tecnico alla segreteria del Ministero dell’Ambiente per l’applicazione dello schema “Made Green in Italy” e il rilascio del relativo logo.

“L’approccio danese – spiega Iraldo – era stato adottato e in certa misura potenziato nella proposta di direttiva europea sui green claims. La proposta ufficiale, però, pubblicata il 22 marzo 2023, è risultata molto differente e piuttosto annacquata: il documento, infatti, dice che a ogni claim proposto da un’azienda deve corrispondere un’adeguata prova fondata scientificamente su basi solide della veridicità. Ma il modello Lca compare soltanto come uno dei modi che si possono usare per comprovare la sostenibilità di un prodotto o di servizio. Un passo indietro che di fatto non dà alcuna garanzia di tutelarsi dal pericolo di greenwashing, visto e considerato che una società potrà adottare un qualsiasi metodo di valutazione carbon footprint arbitrario e starà a chi accusa di greenwashing l’onere di provare che il metodo non sia scientifico”.

L'APPROCCIO ITALIANO

Nel frattempo in Italia la nostra AGCM, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, si è attivata da tempo su questi temi “con le dinamiche che la contraddistinguono: intervento autonomo se è riscontrato rischio di greenwashing, su segnalazione di ricorrenti all’autority, e di promozione dell’adozione delle più avanzate soluzioni, fra le quali l’Lca ricopre un ruolo di primo piano. A seguito di contestazioni il garante, infatti, può prescrivere all’azienda di condurre un Lca, a conferma della scientificità di questo metodo” conclude Iraldo.

IL MODELLO BRITANNICO

In Gran Bretagna, invece, l’Advertising Standards Authority (ASA), ha deciso da subito di definire nuove linee guida per limitare gli abusi e i messaggi vaghi legati ai claim “carbon neutral” e “net zero”. La necessità di aggiornare le indicazioni in chiave anti-greenwashing nasce anche in questo caso dalle evidenze di una ricerca che ha fatto emergere lo scarso consenso sul significato di termini come carbon neutral e net zero. L’ASA ha così lanciato l’allarme sugli annunci fuorvianti che hanno l’effetto di causare “danno al consumatore e danno al pianeta”. Il regolatore ha anche aggiunto che “per evitare un disastroso cambiamento climatico sempre più ovvio, la pubblicità e, per estensione, la regolamentazione degli annunci, deve fare la sua parte nel lavorare verso gli obiettivi climatici concordati”.

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Giornalista professionista da 16 anni trascorsi fra redazioni di quotidiani, agenzie di stampa e Tv. Oggi si occupa di contenuti in Lob Pr+Content

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